Apprendiamo da un tweet del Ministro della Salute, Roberto Speranza, la sua decisione di permettere il ricorso all’aborto farmacologico mediante mifepristone fino al termine della 9° settimana di amenorrea, rinunciando al regime di ricovero, così come previsto dalle Linee guida vigenti fin qui.

1.Come Ella ben sa, la redazione delle Linee Guida era stata preceduta da due diversi pareri del Consiglio Superiore di Sanità (rispettivamente del 2004 e del 2005) e da una delibera dell’AIFA del 30 luglio 2009, che evidenziavano come “i rischi connessi all’interruzione farmacologica della gravidanza si possono considerare equivalenti alla interruzione chirurgica solo se l’interruzione di gravidanza avviene in ambito ospedaliero”; che
“l’associazione di mifepristone e misoprostolo deve essere somministrata in ospedale pubblico o in altra struttura prevista dalla predetta legge e la donna deve essere ivi trattenuta fino ad aborto avvenuto”; ed infine che “tutto il percorso abortivo deve avvenire sotto la sorveglianza di un medico del servizio ostetrico ginecologico cui è demandata la corretta informazione sull’utilizzo del medicinale, sui farmaci da associare, sulle metodiche alternative e sui possibili rischi connessi, nonché l’attento monitoraggio onde ridurre al minimo le reazioni avverse segnalate, quali emorragie, infezioni ed eventi fatali”. Come infatti messo in evidenza dalle stesse linee guida, le maggiori complicazioni riguardano il sanguinamento con necessità di emostasi chirurgica, il grave stato anemico con necessità di trasfusione (2:1000 casi), l’infezione (ad esempio da Clostridium Sordelli, germe responsabile della maggior parte dei decessi di donne che avevano utilizzato RU 486). Da tali eventi avversi “emergerebbe un profilo di sicurezza inferiore dell’IVG farmacologica rispetto a quello dell’IVG chirurgica” (parere CSS del 18.3.2010).

Sarebbe quindi davvero importante conoscere da quali ricerche o da quali dichiarazioni di associazioni mediche siano emerse le nuove evidenze scientifiche che hanno condotto alle attuali determinazioni.

2.Come è noto, l’aborto farmacologico si basa sulla somministrazione di un farmaco, il mifepristone, che provoca il distacco dell’embrione dalla parete uterina e quindi la sua morte. Segue la somministrazione di una prostaglandina, che provoca l’espulsione dell’embrione. “L’intero processo si svolge in un intervallo temporale piuttosto lungo, quasi mai inferiore ai tre giorni e vi sono implicazioni estremamente importanti dal punto di vista psicologico sulla donna che ha deciso di seguire questo difficile e doloroso percorso.

Non è possibile stimare a priori il momento in cui avverranno la morte dell’embrione e la sua successiva espulsione. Dalla letteratura scientifica è noto infatti che, mediamente, il 5% delle donne espelle l’embrione solo dopo il primo farmaco, il 60% entro 4-6 ore dal secondo farmaco, il 20-25% entro 24 ore e il 10% nei giorni successivi” ( dalle Linee Guida nazionali sull’aborto farmacologico).

Con le nuove direttive del Ministro Speranza invece, i farmaci saranno consegnati dal medico ospedaliero (?) alla donna che dopo mezz’ora dall’assunzione della prima compressa potrà tornare a casa ad attendere da sola gli eventi. È doloroso pensare ad uno Stato che relega in totale solitudine la donna che vive uno dei momenti più terribili della sua vita, chiedendole di valutare autonomamente l’entità delle perdite, dei dolori, di decidere se rimanere a casa o andare al Pronto Soccorso…e non è difficile, purtroppo, immaginare che la gran parte di queste donne non possa contare neanche sull’appoggio di un compagno.

Sole , dunque. È questo quello a cui pensavano le donne, quando proclamavano che “l’utero è mio e lo gestisco io”? Sole fino a mettere in pericolo la propria salute? Fino al punto di vedere tuo figlio espulso dal tuo corpo e finire in un water?

Perché?

Per risparmiare in spesa sanitaria (sale operatorie, giorni di degenza, magagne con ginecologi obiettori e non obiettori?) ai tempi della pandemia da Covid?

Per una forzata lettura ideologica della realtà?

3.Eppure la legge 194 è talmente chiara da intitolarsi: “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza” ; e lo Stato dovrebbe assicurare tale tutela sociale mettendo in campo, almeno sulla carta, servizi pubblici e di terzo settore, operatori del servizio sanitario nazionale ed associazioni di volontariato, Comuni, ASL, Enti pubblici, per aiutare la donna a superare le cause che la spingono ad abortire (artt. 2 e 5). In tal modo, secondo il dettato della 194, la tutela sociale della maternità sarebbe garantita.

I dati della Relazione annuale del Ministro della Salute al Parlamento sull’attuazione della legge 194 non depongono in tal senso. Basti pensare che la maggior parte degli aborti volontari in Italia avviene entro l’ottava settimana di amenorrea, senza il tempo necessario, quindi, alla realizzazione di quegli interventi (con il datore di lavoro, con il padrone di casa, con il partner…), spesso complessi e articolati, bisognosi di tempo, necessari a sostenere la donna e permetterle di non abortire. Basti pensare che, secondo la stessa relazione, la stragrande maggioranza dei colloqui pre- IVG svolti nei consultori familiari pubblici si risolve nel rilascio del documento che abilita la donna ad abortire; e in Italia meno della metà delle donne che intende abortire si rivolge al consultorio, la struttura principe deputata alla sua tutela.

RU 486 già andava nella direzione della privatizzazione dlel’aborto quando la sua assunzione era consentita entro il 49° giorno di amenorrea, senza cioè neanche il tempo di capire se una gravidanza era in utero o era iniziata fuori di esso.

Ora, con questo provvedimento del Ministro Speranza, anche la stessa attuazione dell’aborto non sarà più risolta da mani estranee, nel breve tempo di una veloce anestesia, ma affidata alla stessa donna e alla sua solitudine.

Altro che tutela sociale! E questo in tempi di tale denatalità da rendere ancora più preziosa e irrinunciabile ogni vita.

4. E in tutto questo, l’uomo, il partner, il compagno, dov’è? Si nasconde dietro la foglia di fico dell’autodeterminazione della donna. Come noi tutti, del resto. Che celebriamo come libertà l’infinita solitudine di una donna che rinuncia a diventare madre. Che definiamo come maturità l’egocentrismo di troppi maschi eterni Peter Pan.

C’è bisogno di una cultura nuova, che riscopra il significato dell’essere uomo e dell’essere donna nella reciprocità, nella differenza e nella parità, nella capacità di costruire un progetto di vita per cui impegnarsi stabilmente insieme, che sia costruttivo, generativo, fecondo; in una parola, bello.

E lo Stato , laico, certo, deve impegnarsi in questo: perché è questo il Bene Comune.

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