Torna all’odg del Consiglio regionale pugliese domani 30 ottobre il ddl n.253/17 “Norme contro le discriminazioni e le violenze determinate dall’orientamento sessuale o dell’identità di genere”.

Già durante le audizioni davanti alle competenti commissioni consiliari numerose erano state le voci, competenti e qualificate, che avevano messo in evidenza le criticità del provvedimento; ad esse, nelle ultime settimane, si sono aggiunte quelle di docenti universitari, tecnici, società civile, e di esponenti di associazioni di genitori di persone  omosessuali.

Come Forum delle Associazioni Familiari di Puglia vogliamo ribadire la nostra contrarietà al ddl in oggetto, non evidentemente rispetto alla finalità generale, ma rispetto al merito e al metodo.Siamo da sempre contro ogni forma di discriminazione, riconoscendo in ogni persona umana, in qualunque momento della sua vita e in qualunque condizione, un valore da tutelare.Ma è veramente questa la finalità del ddl?

Illustri pedagogisti e scienziati dell’educazione hanno ripetutamente sottolineato che se si vuole operare contro ogni forma di discriminazione, il primo fondamentale impegno deve essere di tipo educativo, aiutando le nuove generazioni alla relazione con l’altro, diverso da sé per caratteristiche o limiti fisici, per razza, sesso o religione, e quindi a un atteggiamento inclusivo. C’è bisogno di accogliere e comprendere le singole persone, non di incasellarle in categorie – obeso, straniero, disabile, omosessuale –, queste sì discriminanti.

In questo senso, l’approccio del ddl è profondamente sbagliato, visto che individua in modo esclusivo le persone omosessuali come oggetto di  discriminazioni da prevenire (art. 1); così facendo , esso discrimina fra discriminati e prescinde da un fondamentale lavoro educativo che dovrebbe avere come protagoniste la famiglia e la scuola. In realtà (art. 3), rispetto alla scuola, il ddl prevede che la Regione promuova interventi formativi su docenti, genitori e studenti in merito alla prevenzione dell’omofobia. Questa NON è materia di competenza regionale.

Il Parlamento nazionale, approvandola  legge di riforma della scuola n. 107/2015, ha inserito nel curricolo scolastico l’obiettivo formativo della “educazione alla parità tra i sessi” come prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni. Inoltre, le Linee guida nazionali assunte dal Ministro competente dopo qualche mese, dal titolo “Educare al rispetto: per la parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le forme di discriminazione”, intendono avviare un piano di formazione del personale docente che nella sua ordinaria attività di insegnamento deve puntare al raggiungimento di quell’obiettivo. Perché quindi  la Regione Puglia vuole sostituirsi allo Stato in questa funzione che non le appartiene? E per di più, vuole farlo solo per una circoscritta categoria di discriminazioni? Non rischia, questo disegno di legge, di apparire esso stesso come un intervento che discrimina le violenze determinate dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere rispetto a tutte le altre violenze e/o omissioni, normalmente dimenticate? Sarebbe ancora da chiedersi perché duplicare gli interventi in questo ambito, con il rischio di sovrapposizioni e confusioni in una materia che richiede chiarezza e univocità negli obiettivi e nei metodi.

D’altro canto, gli orientamenti nazionali promuovono e valorizzano il rafforzamento dell’alleanza educativa fra famiglia e scuola, confermando la primaria responsabilità educativa dei genitori, riconosciuta  dalla Costituzione e da tutti i più recenti atti del Miur. Perché  il testo del ddl regionale va nella direzione opposta, individuando nei genitori solo dei meri destinatari di presunte iniziative formative, organizzate non si sa da chi , con quali contenuti e metodi e in base a quale riconosciuto protocollo scientifico?

Questo testo dimentica inoltre che da circa 15 anni esiste l’autonomia scolastica e rischia di violarla. Decisioni in merito spettano infatti agli organi collegiali di ogni singolo istituto e non possono essere prese né dalla Regione né dall’Usr.

Il testo del ddl fa uso della contrapposizione  “sesso biologico – genere sociale”, e parla di “sesso assegnato alla nascita”. In realtà una persona nasce con un corpo sessuato, per poi interiorizzarlo psichicamente nei primi anni di vita nell’ambito di un complesso processo di elaborazione della propria identità. La locuzione “sesso assegnato alla nascita” fa riferimento aun assioma non esplicitato, secondo il quale il genere sociale risulterebbe essere una variabile indipendente rispetto al sesso biologico: è la base della cosiddetta  ideologia “gender, ”pensiero rifiutato in modo deciso e pressoché unanime dalle scienze naturali, oltre che in netto contrasto con quanto vissuto a livello sensoriale dalla stragrande maggioranza dei cittadini comuni.Ci permettiamo di ricordare che le succitate Linee Guida della legge 107 dichiarano esplicitamente che ogni riferimento all’ideologia gender deve essere escluso dalla scuola e dal suo lavoro educativo.

La genericità del ddl e la mancanza di indicazioni chiare circa le azioni da esso previste continua nell’art.5, dove si parla di formazione di personale sanitario e socio-sanitario, senza però che siano chiaramente indicati i soggetti dell’azione formativa, i contenuti e i metodi di tale azione ed i protocolli scientifici a cui essa dovrebbe far riferimento.

In realtà, tutto si chiarisce leggendo l’articolo 7 delddl,doveè scritto che al Tavolo che la Regione dovrebbe istituire per governare le azioni previste dal ddl dovrebbero sedere ben sei rappresentanti delle associazioni Lgbt, oltre a delegati del mondo sindacale e delle associazioni datoriali. E le associazioni familiari? E le associazioni di genitori e insegnanti? Non è sull’alleanza attiva fra scuola e famiglia che dovrebbe basarsi ogni azione di educazione alla relazione e al rispetto dell’altro?

La Regione in pratica “appalterebbe” alle associazioni Lgbt la gestione pratica delle azioni previste dal ddl e dei relativi finanziamenti, discriminando altri soggetti ( la famiglie, la scuola , i media, le agenzie educative, la stessa comunità ecclesiale…) fondamentali dal punto di vista educativo , nonché le associazioni delle persone omosessuali o di loro familiari che non si riconoscono nella cultura delle associazioni Lgbt.

Il ddl 253 del 2017 – ed è questa la più dolorosa osservazione dei genitori di figli omosessuali e transessuali – propone di tutelare soltanto una parte delle persone omosessuali e conidentità di genere diversa, ossia coloro che si identificano con la sigla Lgbti.  Esiste infatti un alto numero di persone omosessuali e lesbiche le quali, pur provando attrazione per lo stesso sesso, non si definisce come persona in base al proprio orientamento sessuale secondo le sopraccitate o altre sigle, e che NON  individua nell’atteggiamento omofobico della società , per fortuna limitato sia in Italia che in Puglia,  la causa prevalente del disagio vissuto.Ci sono forse omosessuali di serie A ed altri di serieB?

L’articolo 2 del ddl prevede inoltre “misure di accompagnamento in grado di supportare le persone che risultino discriminate (…) per il loro orientamento sessuale o dall’identità di genere, nella individuazione e costruzione di percorsi di formazione ed inserimento lavorativo”.
In una regione come la nostra, caratterizzata dalle continue migrazioni dei giovani alla ricerca di un posto di lavoro , perché non fare altrettanto per i nostri ragazzi e in particolare per le donne che tentano di inserirsi nel mondo del lavoro, specialmente se in epoca fertile o addirittura in gravidanza? Vogliamo far finta di non sapere quante dimissioni in bianco vengono fatte firmare dalle ragazze in procinto di essere assunte per essere utilizzate in caso di gravidanza? Non è discriminazione questa? E perché non viene sanzionata dal ddl? Evitiamo dunque che dalla discriminazione si passi al privilegio.

C’è un’ultima domanda che vorremmo porre alla politica, nel momento in cui si appresta a discutere e a votare il ddl 253. Che cosa intendete per omofobia?

Il termine nel ddlè  utilizzato in modo estremamente generico, con il rischio di lasciare ampio spazio a interpretazioni soggettive.

Se contrastare l’incitamento all’odio, le dichiarazioni di intolleranza, tutte le forme di discriminazione è obiettivo di ogni persona civile, il problema del ddl consiste nella difficoltà di precisare i confini di questo concetto: forse saranno da considerare omofobe le persone che si esprimono contro la Gpa (Gestazione per altri)? O quelle che ritengono che il matrimonio debba essere celebrato solo fra un uomo ed una donna?

È proprio la genericità del ddl che mette a rischio una sua attuazione equilibrata, democratica e rispettosa della pluralità degli orientamenti culturali.

Ce ne dà conferma la lettura dell’articolo 8,in netto contrasto con i princìpi chiaramente espressi nell’art. 21 della Costituzione Italiana: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure…”.

Se il testo del succitato art.8 del ddl regionale intende far riferimento a reati, si ricorda che essi sono chiaramente sanciti e perseguibili dal codice penale, e nel caso di riconoscimento di danni a persone offese, anche dal codice civile. Né è possibile che una legge regionale introduca “pene” che discriminerebbero i giornalisti della nostra regione dai giornalisti di altre regioni italiane.Dunque,l’attuale stesura dell’art. 8 in questione appare decisamente un “bavaglio preventivo” non solo inaccettabile, ma anche improponibile sul piano del rispetto dei princìpi democratici.

Proponiamo all’intero Consiglio regionale queste considerazioni, appellandoci alla ragione  di ciascuno perché il ddl 253717  venga bocciato, almeno nella sua forma attuale.

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