Una proposta di legge nata probabilmente da buone intenzioni, ma che affronta il problema – ammesso che di problema si tratti – da un punto di vista completamente sbagliato.

È questa l’opinione condivisa sul ddl n. 253 sulle “Norme contro le discriminazioni e le violenze determinate dall’orientamento sessuale o dell’identità di genere”, cosiddetto antiomofobia, approvato dalla Giunta regionale nel novembre 2017 e previsto in discussione in Consiglio oggi 16 ottobre, nonostante sia stato dichiarato incostituzionale dallo stesso ufficio legislativo della Regione e abbia ricevuto il parere negativo del Corecom.

«Per toccare aspetti così delicati – dice in merito la professoressa Loredana Perla, docente di Didattica e Pedagogia speciale presso il Dipartimento di Scienze della formazione, Psicologia e Comunicazione dell’Università di Bari – non bisogna infatti partire dalla criticità. Piuttosto avere un approccio educativo, specie nei confronti dei giovani, sull’educazione affettiva ai sentimenti e alle emozioni; con un’apertura tale da costruire un rapporto di fiducia, in cui gli adolescenti si sentano liberi di far emergere serenamente nel dialogo con gli adulti (siano essi genitori, insegnanti o educatori) eventuali elementi problematici.

Dire che esiste un problema è il modo peggiore per affrontarlo. Tutte le teorie pedagogiche sono orientate in questo senso».

Ne è convinto anche Michael Galster, presidente nazionale dell’Agapo (Associazione genitori e amici di persone omosessuali). «I ragazzi – dice – devono uscire da una visione infantile-narcisistica-autoreferenziale e imparare a rapportarsi con chi è diverso». Siamo tutti a nostro modo diversi: chi per una caratteristica o un difetto fisico, chi per provenienza, chi per religione. «Bisogna sapersi raffrontare con l’Altro senza etichettarlo. C’è bisogno di accogliere e comprendere le singole persone, non di incasellarle in categorie – obeso, straniero, omosessuale – che discriminano».

Fondamentale nel percorso di accettazione di sé e del mondo che ci circonda è il ruolo della scuola.  «La scuola prima non dava spazio alle emozioni – prosegue la professoressa Perla -, ora invece sì. L’educazione agli affetti può attingere alla cultura, alla letteratura, alla poesia, le quali offrono mille spunti per far ragionare i ragazzi.

Esistono iniziative ministeriali lodevoli sulla formazione degli insegnanti all’educazione dell’affettività. Questa educazione si deve solo “quotidianizzare”, ribadendo il concetto che “insegnando io posso educare”.

In tal senso, come ricorda la professoressa Lucrezia Stellacci, presidente regionale dell’Uciim (Associazione nazionale docenti, dirigenti, formatori, educatori cattolici), «il Parlamento nazionale, approvando l’ultima legge di riforma della scuola (la 107 del 2015), ha inserito nel curricolo scolastico l’obiettivo formativo della “educazione alla parità tra i sessi” come prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni». Inoltre, «le Linee guida nazionali assunte dal Ministro competente dopo qualche mese, dal titolo “Educare al rispetto: per la parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le forme di discriminazione” intendono per l’appunto avviare un piano di formazione del personale docente che nella sua ordinaria attività di insegnamento deve puntare al raggiungimento di quell’obiettivo, indicato nella legge 107 e poi analiticamente chiarito nelle successive Linee guida. Perché – si chiede dunque la professoressa Stellacci, interpretando un pensiero comune – la Regione Puglia vuole sostituirsi allo Stato in questa funzione che non le appartiene? E per di più, vuole farlo solo per una circoscritta categoria di discriminazioni? Non rischia, questo disegno di legge, di apparire esso stesso come un intervento che discrimina le violenze determinate dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere rispetto a tutte le altre violenze e/o omissioni, normalmente dimenticate? Sarebbe ancora da chiedersi perché duplicare gli interventi in questo ambito, con il rischio di sovrapposizioni e confusioni in una materia che richiede chiarezza e univocità negli obiettivi e nei metodi».

Il rischio paradossalmente è «che si suscitino reazioni negative e contrapposizioni – spiega il presidente Agapo -. Se si parte dal presupposto che nelle scuole ci sia discriminazione, questa è un’implicita accusa ai ragazzi, i quali o la subiscono tacitamente, non esprimendo più se stessi o – peggio – reagiscono negativamente. Quando non è ben definito cosa è discriminazione, si può intendere che ciò riguardi anche chi ha un’opinione diversa». Anche l’Osservatorio previsto dalla legge non sarebbe «rappresentativo: non ci sono i genitori, né la scuola, né le istituzioni».

«La discriminazione va combattuta tout court – prosegue Galster -, non rispetto a un solo gruppo specifico. Tra l’altro ci sono persone che non si riconoscono nelle sigle Lgbti, persone che si vogliono relazionare con gli altri come uomini o come donne, non in base alle proprie preferenze erotiche e sessuali. Ciò non significa nascondersi, semplicemente non essere obbligati ad assumere un’identità – quelle lgbti – in cui non ci si riconosce».

Un altro limite, secondo Galster, è l’eccessiva genericità del ddl. «In formulazioni così poco definite ci si può inserire dentro tutto e il contrario di tutto». Rispetto per esempio agli interventi previsti nell’articolo 2 e atti a garantire la formazione e riqualificazione professionale e l’inserimento lavorativo, il presidente Agapo ricorda che «per fortuna le persone omosessuali hanno mediamente un successo lavorativo non inferiore agli altri».

Insomma, dire (come scritto nel ddl) che esiste il problema omofobia significa rendere clinica la questione», mentre il lavoro da fare dev’essere «squisitamente educativo», conclude la professoressa Perla.

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