«Chi accoglie non si dà semplicemente da fare o fa spazio a qualcuno, ma rinuncia all’io e fa entrare nella vita il tu e il noi». Cita Papa Francesco la professoressa Olga Frate, dirigente scolastica del 1° Circolo Didattico Montessori di Mola di Bari, quando le si chiede quale sia l’errore più grave che i genitori possano commettere nei confronti dei figli. Semplicemente, «non riescono a mettere da parte il proprio ego» in favore di una visione familiare, d’insieme, che metta al centro i bambini e non se stessi.

La professoressa Frate ha scritto una lettera aperta “alla comunità educante” della sua città, che potrebbe essere allargata a una platea molto più ampia, a seguito di inquietanti episodi verificatisi nella sua scuola, dovuti alla visione da parte di alcuni alunni della serie televisiva coreana “Squid game”. Serie – è il caso di ricordarlo – ufficialmente vietata ai minori di 14 anni, non doppiata in italiano, ma trasmessa sottotitolata in lingua originale su una piattaforma a pagamento.

«I disegni dei bambini con scene violente e sangue hanno subìto un’impennata – scrive la preside -. Soggetto ricorrente è una grande bambola seguita da una scia di morti. E ancora. Nelle quarte e nelle quinte classi i ragazzini si definiscono come winner e loser, vincenti e perdenti. Quella che può essere una sconfitta accettabile in un gioco o nello sport diventa occasione per etichettare gli scarti».

Questa modalità così discriminante di interazione, giunta persino ai più piccoli, è secondo lei «una questione di imposizione di modello culturale. La cultura dell’ego è nata con la disgregazione delle grandi narrazioni collettive, politiche e/o religiose. Capitalismo e consumismo hanno alimentato  una cultura dell’ego senza limiti, una cultura che compra e consuma, perché l’ego non si soddisfa mai, ha bisogno di riempirsi di oggetti e l’individuo non fa altro che chiedere cose per se stesso», senza pensare né all’altro, foss’anche suo figlio, né al bene della collettività. «La gente si sveglia con un desiderio, lo appaga e la sera va a letto con un altro desiderio» da inseguire il giorno successivo.

Di fronte a questa situazione, è urgente un cambio di rotta, necessario per proteggere bambini e ragazzi, se non vogliamo che una Giornata come quella dedicata ai diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, che si è da poco celebrata, resti solo lettera morta. «Le famiglie, insieme alle scuole e allo Stato, devono creare un vero e proprio “cordone collettivo” intorno a loro, contribuendo a tutelarli anche per quelle persone che, per tanti motivi, non ce la fanno».

Non è facile, in quanto tutti pensano di essere nel giusto coi loro comportamenti, spesso rinforzati dal sovraccarico di informazioni oggi disponibili in rete e scambiato per cultura. «Oggi non sempre le famiglie accettano di affidarsi alla scuola o alla collettività, ma nessuna famiglia deve essere giudicata o condannata. Siamo in una fase di cambiamenti culturali, per cui stanno venendo meno quei paradigmi valoriali che ci hanno sorretto finora e se ne stanno creando altri». E questo non è necessariamente un fatto negativo, anzi. «A livello storico abbiamo assistito a ciò in tanti momenti. Quando l’Impero è crollato sotto i barbari, i romani gridavano alla tragedia, ma da quella disgregazione è nata la nostra civiltà. Così non ci sono famiglie da salvare o, al contrario, da rigettare, nessuno sia giudicato: stiamo assistendo all’evoluzione di un modello familiare e genitoriale e sta a noi cercare di imprimere una direzione che mantenga alcuni valori e ne accolga altri».

Dal canto suo, la scuola continua a rimanere «l’ultimo baluardo di collettività, il luogo in cui il bambino viene invitato a guardare al “noi”, all’altro, che ha gli stessi bisogni e gli stessi diritti. È un luogo importante, perché insegna al bambino ad essere un “io fra i tanti”», che non può monopolizzare l’attenzione o pretendere tutto per sé, come spesso è abituato a fare a casa.

Costruire una vera alleanza educativa tra istituzione scolastica e famiglia, secondo la professoressa Frate, è un lavoro lungo e faticoso, «perché bisogna ripristinare nei genitori un’idea di rispetto dell’autorità, oltre che dell’autorevolezza della scuola, che non sempre c’è. Spesso non si riconosce l’autorità del giudizio della maestra, della decisione del preside, dei divieti imposti…». Tutto è passibile di contestazione.

È necessario dedicare molto tempo, pazienza ed energie alle famiglie, per riportarle ai valori che la scuola rappresenta. «Quando si iscrive un bambino, insieme a lui si iscrive un’intera famiglia, e se non “acchiappiamo” quella famiglia, non “acchiappiamo” neanche il bambino».

Dal loro punto di vista, i genitori devono imparare a dire no, a non consentire ciò che è vietato senza necessariamente cercare il consenso dei propri figli: l’educatore non ha bisogno dell’approvazione dell’educando per svolgere bene il proprio ruolo. Perché alla lunga fanno più danni troppi sì che troppi no.

Infine, bisognerebbe iniziare a sostituire la ricorrente domanda “Cosa vuoi?” con un più empatico “Come stai?”. Perché un sano rapporto di genitorialità inizia proprio da lì.

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